Con una recente sentenza, il Tribunale di Reggio Emilia ha sostenuto che grava sul lavoratore, il quale lamenti di aver subito “mobbing”, l’onere di allegare e provare sia la sussistenza di plurime condotte illegittime, sia la circostanza che i comportamenti datoriali siano il frutto di un disegno persecutorio unificante, preordinato alla prevaricazione.
Il Tribunale, richiamata la giurisprudenza della Suprema Corte – secondo la quale, ai fini della configurabilità di una ipotesi di “mobbing”, non è condizione sufficiente l’accertata esistenza di una dequalificazione o di plurime condotte datoriali illegittime (Ordinanza Cassazione, 9 giugno 2020, n. 10992) – ha ritenuto che, nel caso di specie, il lavoratore non aveva provato né la sussistenza dell’asserita dequalificazione, né la sussistenza di condotte illegittime poste in essere dal datore di lavoro, né l’esistenza di un disegno persecutorio unificante preordinato alla prevaricazione. Inoltre, il Giudice di prime cure ha specificato che, nel caso esaminato, non era neppure individuabile una responsabilità del datore di lavoro per aver consentito il mantenimento di un ambiente di lavoro stressogeno, tale da incidere sulla salute del lavoratore.
In particolare, nella valutazione del caso concreto, il Tribunale ha ritenuto che tutte le sanzioni disciplinari comminate al lavoratore nell’arco di un ventennio erano giustificate, perché derivanti da contestazioni collegate a specifiche condotte del dipendente che non potevano essere considerate come tasselli di un disegno persecutorio dell’azienda.
Ancora, a dire del Giudice di Reggio Emilia, il ricorrente non aveva provato né che l’azienda prima gli avesse promesso una promozione e, poi, gli avesse preferito un altro candidato, a dire del lavoratore, meno qualificato di lui; né che il candidato che aveva ottenuto la promozione, divenendo, così, suo superiore gerarchico, fosse in contrasto con il ricorrente perché quest’ultimo era a conoscenza di presunti fallimenti lavorativi del suo superiore; né che il superiore gerarchico del lavoratore avrebbe tenuto un atteggiamento intimidatorio nei suoi confronti, cercando di allontanarlo dall’azienda. Il Tribunale, poi, ha ritenuto insussistenti anche altri comportamenti, posti in essere, a dire del ricorrente, a distanza di 10 anni dai primi, ossia: I) l’asserito mancato mantenimento della promessa del passaggio ad altra posizione lavorativa; II) il mancato riconoscimento di un aumento retributivo asseritamente promesso; III) l’asserita comunicazione che egli rientrava tra dipendenti in esubero presso la Società- la quale aveva aperto una procedura di licenziamento collettivo – e che se non avesse accettato l’accordo transattivo propostogli sarebbe stato estromesso dall’azienda senza alcun incentivo economico; IV) la riduzione, asseritamente immotivata, delle sue aree di competenza; V) il cambio di valutazione da over performer a low performer, che aveva avuto quale conseguenza la partecipazione a corsi di recupero; VI) la riduzione, per un solo anno, dell’incentivo corrispostogli; VII) l’assegnazione ad altra posizione lavorativa.
Invero, il Giudice di Reggio Emilia, ha evidenziato che:
– non vi erano elementi probatori atti a dimostrare che il ricorrente dovesse essere assegnato ad altra posizione lavorativa;
– l’aumento retributivo era stato, comunque, concesso al lavoratore, seppur in misura minore di quella inizialmente prospettata, e che erano stati chiariti i criteri che avevano portato a riconoscere l’aumento retributivo in misura ridotta, non integrando detta circostanza un atto vessatorio;
– non vi era stato nessun atto vessatorio rivolto nei confronti del ricorrente, ma che egli, come molti altri lavoratori, era stato destinatario di una proposta transattiva di uscita incentiva su base volontaria, nell’ambito di una procedura di licenziamento collettivo;
– i lavoratori ogni anno ricevono una valutazione sulla base di precise regole procedurali, e che il ricorrente aveva ricevuto una valutazione negativa perché non aveva raggiunto gli obiettivi di performance prefissati;
– gli incentivi corrisposti al lavoratore erano stati ridotti sulla base di criteri applicati anche ad altri dipendenti, in forza di quanto previsto dal piano incentivi, e che per un anno l’incentivo era stato ridotto a causa delle numerose assenze del lavoratore.
Il Tribunale ha, da ultimo, chiarito che il ricorrente non aveva provato di aver subito demansionamento o dequalificazione, in quanto, aveva sempre svolto la medesima attività.
Piu precisamente, il Giudice di Reggio Emilia ha precisato che era emerso chiaramente il fatto che il lavoratore preferisse occuparsi della promozione di alcuni prodotti e settori piuttosto che di altri, ma che le modifiche decise dal datore di lavoro in merito alla riduzione delle aree di competenza del lavoratore o della sua assegnazione ad altra posizione lavorativa non potevano essere inquadrate nell’ambito di un demansionamento.
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