15/10/2024


Con l’ordinanza in commento, la Corte di Cassazione è tornata ad occuparsi dell’utilizzabilità, ai fini disciplinari, dei filmati tratti dal sistema di videosorveglianza aziendale, tema sempre attuale e oggetto di un vivo dibattito in giurisprudenza e dottrina. La vicenda in commento trae origine dal licenziamento comminato ad un lavoratore che, in due diversi episodi, non aveva consegnato il resto ai clienti e non aveva registrato gli esuberi di cassa, come era risultato dalle immagini del sistema di videosorveglianza aziendale. Il lavoratore, che aveva eccepito l’illegittimità del controllo aziendale, era risultato soccombente nel giudizio di secondo grado ed aveva impugnato la sentenza di appello, eccependo che le immagini sarebbero state inutilizzabili in quanto l’accordo sindacale che aveva autorizzato l’installazione del predetto sistema di videosorveglianza consentiva al datore di lavoro di visionare le immagini solo in presenza di un reclamo della clientela, nella specie mancante. Inoltre, il lavoratore aveva altresì dedotto che le immagini sarebbero state estratte in modo non conforme alle previsioni della legge n. 48/2008, recante una specifica procedura finalizzata a garantire la genuinità delle immagini registrate, nonché in quanto non sarebbe stata realizzata una “copia forense” dei dati informatici prodotti in giudizio. La Corte di Cassazione, con l’ordinanza di che trattasi, ha rigettato il ricorso del lavoratore. In particolare, la Suprema Corte ha rilevato che dal testo dell’accordo sindacale risultava che il reclamo del cliente non era necessario nel caso in cui la finalità di visionare le immagini fosse quella di tutelare il “patrimonio aziendale”, la cui nozione può essere integrata, altresì, dalla commissione, da parte del dipendente, di condotte potenzialmente rilevanti sotto il profilo penale o comunque idonee a pregiudicare l’immagine del datore di lavoro (come quelle che erano state contestate al lavoratore ricorrente). Quanto, invece, alle ulteriori doglianze del lavoratore, la Cassazione le ha rigettate perché inconferenti (posto che la legge n. 48/2008 riguarda i crimini informatici e contiene previsioni operanti nell’ambito dei soli procedimenti penali) e generiche (posto che il lavoratore non aveva dedotto specifiche circostanze idonee a comprovare la non corrispondenza tra la realtà fattuale e quella riprodotta). Da ultimo si segnala un interessante principio di diritto affermato incidentalmente dall’ordinanza in commento in un obiter dictum: secondo la Suprema Corte, infatti, nell’ipotesi in cui nell’autorizzazione all’installazione degli impianti rilasciata dall’ITL dovesse essere previsto il divieto di utilizzo di tali sistemi per l’eventuale adozione di provvedimenti disciplinari, le immagini sarebbero comunque utilizzabili anche ai fini disciplinari alla luce delle previsioni contenute nell’art. 23 del D. Lgs. n. 151/2015 e nell’art. 5 del D. Lgs. n. 185/2016, che hanno modificato l’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori. Ciò a condizione che sia stata data al lavoratore adeguata informazione delle modalità di uso degli strumenti e di effettuazione dei controlli e che sia stato rispettato quanto disposto in materia di protezione dei dati personali dal D. Lgs. n. 196 del 2003. In conclusione, la Corte di Cassazione ha ritenuto utilizzabili le informazioni raccolte attraverso l’impianto di videosorveglianza installato dal datore di lavoro, anche ai fini disciplinari, e ha rigettato il ricorso del lavoratore.


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