La giurisprudenza si è frequentemente pronunciata in fattispecie nelle quali il lavoratore aveva impugnato provvedimenti disciplinari aventi ad oggetto la risoluzione del rapporto di lavoro determinata da un utilizzo illegittimo dei Social, applicando costantemente, nel tempo, i principi inizialmente enunciati (ad esempio, in tema di: configurabilità del reato di diffamazione, esercizio del diritto di critica, diffusività della pubblicazione).
Nel richiamare i più recenti orientamenti della giurisprudenza di legittimità, si ricorda che la Corte di Cassazione (rigettando il ricorso) ha esaminato una fattispecie in cui la Corte di merito aveva confermato il licenziamento di un lavoratore, che aveva postato, sulla pagina Facebook di un collega, una serie di commenti ingiuriosi e minacciosi nei confronti della dirigenza aziendale (Cass. 24 ottobre 2024 n. 27601).
Quanto ai fatti di causa, il lavoratore aveva tentato di sottrarsi a possibili conseguenze di carattere disciplinare cancellando tali commenti – di cui, tuttavia, erano stati raccolti gli screenshots – al fine di poter configurare una sottrazione del profilo da parte di terzi (procedimento archiviato) ed adducendo, successivamente, una specifica ipotesi di reato (furto del profilo), ritenuto comunque poco plausibile stante la cancellazione dei commenti pubblicati (che non poteva, per ragioni tecniche, essere stata attuata dal collega) e del link di amicizia con quest’ultimo (sulla cui pagina, come detto, tali commenti erano stati pubblicati).
Ugualmente confermato, in sede di legittimità, il licenziamento di un lavoratore che, a seguito di reintegrazione da un precedente licenziamento, aveva pubblicato sulla pagina personale di Facebook video e foto ritenuti eccedenti un legittimo esercizio del diritto di critica (Cass. 17 maggio 2024, n. 13764).
Sempre recentemente, la Suprema Corte ha confermato la legittimità del licenziamento per giusta causa di un rappresentante sindacale che aveva pubblicato su Facebook commenti contenenti espressioni sgradevoli e volgari – quindi prive di una finalità divulgativa – finalizzate, di fatto, a ledere il decoro e la reputazione del datore (Cass. 8 novembre 2023 n. 35922).
La Suprema Corte ha evidenziato che un comportamento di tal genere – gravemente lesivo dell’immagine e del prestigio dell’impresa nonché dell’onorabilità e dignità dei suoi responsabili – travalica ampiamente i limiti della correttezza formale del diritto di critica e sfocia nella diffamazione aggravata, considerata la generale visibilità e “diffusività” dei messaggi postati sui Social (Cass. n. 35922/2023, cit.).
licenziamento indebito utilizzo social