Fattispecie
Un lavoratore del settore telecomunicazioni con elevata anzianità aziendale e inquadramento al V
livello come operatore di customer care, era stato adibito a mansioni di call center,
significativamente inferiori rispetto al suo livello professionale (e secondo i giudici del merito
corrispondenti al III livello dell’applicato CCNL).
Il dipendente, che si era quindi rivolto al Giudice del lavoro di Milano, ha ottenuto la condanna
dell’azienda alla reintegrazione nelle mansioni precedentemente svolte e al risarcimento del danno
alla professionalità subito, liquidato equitativamente in euro 13.500 (euro 1.000 per ogni mese di
dequalificazione). La sentenza era stata confermata dalla Corte d’Appello territoriale.
La Corte di cassazione ha confermato la decisione di merito, ribadendo tra gli altri questi
principi, ampiamente consolidati in giurisprudenza:
• Prova del demansionamento: la Corte fa riferimento ai propri “insegnamenti” in merito al
percorso di accertamento dell’an, da svolgersi in tre fasi successive; la prima è costituita
dall’accertamento in fatto delle attività lavorative in concreto svolte, la seconda dall’individuazione
delle qualifiche e dei gradi previsti dal ccnl di categoria, la terza dal raffronto tra la prima indagine
e le previsioni della normativa contrattuale.
• Risarcibilità del danno non patrimoniale: la sentenza afferma che nel caso di
dequalificazione professionale è risarcibile il danno non patrimoniale derivante da una grave
violazione dei diritti del lavoratore, tutelati costituzionalmente. Per la determinazione del danno si
deve considerare la durata e la reiterazione del comportamento lesivo nonché “l'inerzia del datore di
lavoro anche a prescindere da uno specifico intento di declassarlo o di svilirne i compiti” (intento
richiesto, invece, quale elemento di configurabilità del mobbing). Il lavoratore, cui spetta la prova
del danno, può tuttavia portare elementi indiziari gravi, precisi e concordanti, come la qualità e la
quantità dell'attività svolta, la natura della professionalità coinvolta, la durata del demansionamento
e la nuova collocazione lavorativa dopo la dequalificazione.
• Incidenza del “settore” ai fini della quantificazione del danno: ai fini della
quantificazione del risarcimento, enuncia la Corte, rileva anche il mancato aggiornamento
tecnologico del dipendente, soprattutto in settori caratterizzati da rapida evoluzione tecnologica.
•
La decisione riportata sottolinea l'obbligo del datore di lavoro di garantire l'adeguatezza delle
mansioni assegnate rispetto alle competenze del lavoratore, evitando situazioni di dequalificazione
che possano compromettere la sua professionalità. In settori soggetti a incessante innovazione
*Avvocata giuslavorista in Milano.
tecnologica come quello delle telecomunicazioni, è essenziale che i dipendenti siano costantemente
aggiornati per preservare e accrescere la loro competenza professionale e competitività sul mercato
del lavoro.
La Corte ha valorizzato gli elementi indiziari nella dimostrazione del danno, riconoscendo che il
lavoratore non ha l'obbligo di fornire prova testimoniale diretta, ma può evidenziare circostanze atte
a una congrua determinazione del pregiudizio subito quali la durata del rapporto, la durata del
demansionamento, la “competenza professionale il cui ambito di assegnazione era interessato da
una rapida e continua innovazione”.
Conclusioni
L'ordinanza n. 3400/2025 rappresenta un importante ancoraggio nella tutela dei diritti dei lavoratori,
evidenziando in maniera efficace che – soprattutto in contesti lavorativi ad alto impatto tecnologico – è fondamentale un ambiente di lavoro che sia rispettoso dei diritti e delle aspettative professionali
di ciascuno. Questo è sempre più richiesto alle organizzazioni, affinché si realizzi pienamente
l’equilibrio tra esigenze datoriali e valore della persona umana, anche attraverso il lavoro (artt. 2, 3,
demansionamento